a cura di Luca Carlo Maria Santagostino
Prefazione
Questo volume si richiama ad un'ipotetica donna di denari. La domanda nasce spontanea: siamo sicure di poter realmente giocare questa carta nelle nostre vite?
È bene precisare che, nelle carte da gioco, la donna di denari non esiste.
"La donna di denari" è, semmai, il titolo di un romanzo dello scrittore spagnolo Pérez Galdòs Benito, in cui si parla di una spietata piccolo-borghese con aspirazioni di potere e ricchezza, attribuendo pertanto una connotazione piuttosto negativa ai significati che restituiscono la descrizione della protagonista.
Una figura che si avvicina all'invenzione della nostra donna di denari è, invece, quella della regina di denari, arcano minore dei tarocchi, che simboleggia una donna ricca, intelligente, astuta, ma spiritualmente sola, trincerata nella sua ricchezza.
È curioso che molto spesso la letteratura ci restituisca un ritratto assai fosco delle donne di denari, mentre questa figura è piuttosto recente nella nostra storia. Si dice che le donne abbiano fatto ingresso nel mondo del lavoro in un preciso momento storico.
Per la verità, le donne lavorano da sempre, ma solo in tempi relativamente recenti il loro è stato un lavoro pagato. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in Italia, si cominciò a parlare di occupazione femminile di massa. Sappiamo bene, infatti, come storicamente ci fosse una cesura quasi netta tra le occupazioni domestiche a carico delle donne e lo spazio pubblico, esterno, costruito e gestito dagli uomini.
A metà del secolo scorso, questo paradigma cominciò a sgretolarsi, quando le donne entrarono nelle fabbriche. Per i "record femminili", invece, abbiamo dovuto aspettare alcuni decenni.
È Chiara Valentini a ricordarci di Tatiana Magnani, la prima scaricatrice portuale in Italia, della prima autista d'autobus a Napoli, di Marta di Pol, la prima croupier al casinò di Venezia .
È negli anni Ottanta che le donne ricoprono, quindi, ruoli fino a quel momento impensabili. Forse non tutti sanno che, spesso, le donne si sono avvicinate a questo tipo di occupazioni non come frutto di una vera e propria scelta.
Ma anche questo non rappresenta una novità: il mondo del lavoro femminile è ricco di paradossi.
Il primo riguarda il fatto che la crescita dell'occupazione femminile non ha portato ad una conseguente crescita della qualità del lavoro e, soprattutto, ad un uguale riconoscimento economico, al pari degli uomini.
Basti pensare che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna le donne guadagnano in media il 25-30% in meno degli uomini. Questa cifra scende al 10-20% in alcuni Paesi del Centro e Nord Europa, fino ad un 10% in Italia e negli altri Paesi del Sud Europa .
Le più basse percentuali di differenziale salariale riscontrate nel nostro Paese dipendono, comunque, da un inferiore tasso di occupazione delle donne rispetto ad altri Paesi.
Bologna non fa eccezione, nonostante abbia oggi un indice di occupazione femminile tra i più alti d'Italia. Il 63% delle bolognesi ha un lavoro pagato e, cosa più significativa, questo è un dato consolidato nel tempo. Da diversi anni, infatti, questa provincia ha raggiunto l'obiettivo fissato dal Consiglio europeo di Lisbona di portare l'occupazione femminile al 60% entro il 2010.
Valgono, però, anche a Bologna le dinamiche tipiche dell'occupazione femminile e, cioè, una più bassa percentuale di donne occupate rispetto agli uomini, un inferiore livello di qualificazione del lavoro femminile, soprattutto se raffrontato ai percorsi formativi e, in particolare, universitari, una maggiore difficoltà ad ottenere un posto di lavoro stabile.
Si calcola che in Emilia Romagna una donna impieghi mediamente 3 anni per stabilizzare la propria condizione a fronte di "appena" un anno di un suo collega maschio .
Infine, non siamo esenti dal fenomeno della disparità salariale, riconosciuto in tutto il mondo.
Il punto è esattamente questo: ormai da decenni, si parla di differenziale salariale. È noto come questo aumenti con l'occupazione femminile, con l'aumento di stipendio, con le progressioni di carriera. In più, si evita di sottolineare come questo sia un fenomeno in piena crescita.
Per questa ragione, dal 2002 la Provincia di Bologna ha avviato un'indagine finalizzata a verificare l'esistenza di disparità retributive tra uomini e donne all'interno dell'Ente. La ricerca ha monitorato le buste paga del personale per alcuni anni e, nel 2005, si è scelto di analizzare se i differenziali rilevati all'interno dell'Ente fossero presenti anche in altre realtà pubbliche, diverse per numero di dipendenti.
Il progetto di analisi è stato, pertanto, esteso ai comuni di Ferrara, Imola, Malalbergo e Pianoro. Loro, per primi, desidero ringraziare per aver messo a disposizione dati e professionalità in una ricerca come quella che stiamo promuovendo, così come è doveroso ringraziare le Consigliere di Parità della Provincia di Bologna, che hanno accolto la proposta di sostenere la pubblicazione di questo volume. Dall'ampliamento della ricerca agli altri Enti locali emerge una conferma: i differenziali retributivi nel pubblico impiego esistono e le caratteristiche con cui si manifestano sono simili in tutte le amministrazioni.
Dove si nasconde la differenza negli stipendi se le norme scritte, dalla Costituzione fino alla contrattazione locale, garantiscono assoluta parità di trattamento? Salario accessorio è probabilmente la voce da guardare con più attenzione.
Non solo l'accesso allo straordinario, ma anche la discrezionalità con cui si misura il valore del lavoro modificano la consistenza dello stipendio.
Le domande da porsi, quindi, sono: chi può concretamente accedere allo straordinario? I provvedimenti presi sugli straordinari hanno la stessa incidenza sugli stipendi degli uomini e delle donne? E, ancora, su quale base si pone l'oggettività delle scelte che regolano i processi di lavoro? Infine, abbiamo tutti/e le stesse condizioni di partenza? La Provincia di Bologna ha avviato in questi anni azioni di contrasto alla disparità del salario: si è diminuito complessivamente l'accesso allo straordinario e si è scelto di aprire il salario accessorio a ruoli ricoperti tipicamente da donne, come quelli relativi ai centri per l'impiego.
Tuttavia, per contrastare un fenomeno che ha una diffusione nota in tutti i Paesi ad economia avanzata, le azioni di un ente locale di secondo grado rischiano di essere poco incisive se non combinate con un'azione più ampia che parta dal riconoscimento di questo problema a livello europeo e dalla costruzione di norme che incidano nella contrattazione nazionale.
Desidero, infine, insistere su un ultimo punto, che vale quasi come premessa: questa ricerca non ha l'obiettivo specifico di analizzare l'occupazione femminile. Fotografare le discriminazioni di un gruppo significa, infatti, provare a trovare i presupposti per risolvere un problema e la garanzia di pari opportunità è un vantaggio per tutti. La questione, infatti, non è tanto quella di aumentare gli stipendi delle donne, quanto quella di promuovere per tutti, uomini e donne, condizioni di parità di trattamento nel lavoro e azioni di contrasto alle discriminazioni. Paradossalmente, a distanza di tempo e nonostante il mondo del lavoro sia cambiato moltissimo, siamo oggi ad affermare gli stessi principi per cui i nostri padri e le nostre madri si sono battuti quando scrivevano la Costituzione o quando gettavano le basi di quella che oggi è Unione Europea: pari lavoro = pari retribuzione.
Simona Lembi
Assessora Cultura e Pari Opportunità Provincia di Bologna