L'Appennino bolognese rappresenta, fin dall'epoca romana, il corridoio privilegato per il transito dal nord-est al sud-ovest della penisola verso Roma, supportando, nel tempo, ed in epoca moderna a partire dalla metà del secolo XIX, una cospicua e composita successione d'infrastrutture di valico, prima solo stradali, in seguito ferroviarie e autostradali.
Alla metà dell'800 risalgono, in epoca preunitaria, l'apertura della strada Porrettana (oggi SS 64), e, tra il 1857 e il 1864, la realizzazione, per l'epoca avveniristica, della Ferrovia Transappennina Bologna-Porretta Terme-Pistoia.
Di fatto, è l'esistenza delle due infrastrutture, e specie della ferrovia, che rappresenta il principale collegamento nord-sud del nuovo Regno d'Italia fino agli anni '30 del '900 (sopporterà, da sola, il carico di truppe ed armamenti nel corso della Prima Guerra mondiale, quando vi transiteranno fino a 70 convogli al giorno), a trainare lo sviluppo, demografico ed in seguito economico e produttivo, dei centri toccati nel fondovalle, connotando la vallata del fiume Reno di caratteri del tutto originali e non rinvenibili in altre parti dell’Appennino emiliano.
Le infrastrutture di trasporto, la loro moltiplicazione ed innovazione tecnologica, hanno rappresentato inoltre, per tutto il territorio (dalla strada Porrettana al recente collegamento ad Alta Velocità o Alta Capacità) un relativo fattore di freno nei confronti dei processi di progressivo spopolamento dei versanti montani che interessano, dagli anni '30 in poi, e a dispetto della legislazione contro l'urbanesimo del periodo fascista, il complesso delle zone montane del Paese. Una funzione, quella della grande opera pubblica, keynesianamente labour spending, che tuttavia non troverà repliche nel secondo dopoguerra, con la prima infrastrutturazione autostradale (Autostrada del Sole, e, più di recente, Variante di Valico alla stessa), quando il processo di spopolamento, specie fra gli anni '50 e '60 , colpirà l'Appennino in modo particolarmente severo.
Analogamente, le caratteristiche del collegamento autostradale, che passa e 'salta' la gran parte dei centri minori, così come già aveva fatto la ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, aperta al transito negli anni '30, non consentono che si ripeta quanto innescato un secolo prima sul territorio dalla ferrovia Porrettana. Le nuove infrastrutture veloci non collegano il territorio ma, letteralmente, sono realizzate per valicarlo a dispetto della sua geografia ed orografia.
Tra gli Anni '30 e gli Anni '50 del 900, un’altra e diversa ferita, la più lacerante e profonda, va ad incidersi in modo permanente sul corpo vivo di questo tratto dell’Appennino.
Il segno della ferita può essere rintracciato nella Linea Gotica, linea difensiva su cui le truppe tedesche, divenute da alleate nemiche dopo l’8 settembre del ’43, si attestano tra l’agosto del 1944 e l’aprile del 1945 della liberazione del territorio bolognese e della città di Bologna.
Ma lo squarcio della ferita dell’autunno-inverno del ’44 si apre tragicamente a nord della Linea Gotica, nel medio Appennino tra Setta e Reno. Qui, nel territorio dei Comuni di Marzabotto, Grizzana Moranti, Monzuno, Vergato, le piccole comunità montanare, fortemente legate alla terra, si trovano ad ospitare in un rapporto sostanzialmente solidale, dalla primavera del ’44, l’insediamento di presidi di combattenti partigiani della Brigata Stella Rossa.
Qui le stesse comunità, nella loro interezza, si avviano a pagare il prezzo del proprio stesso sterminio sull’altare blasfemo del sacrificio ‘castale’ – secondo le parole di Giuseppe Dossetti - perpetrato tra ottobre e novembre 1944, noto al mondo come strage di Marzabotto.
Nelle terre dell’eccidio, così come in quelle contigue, il processo di spopolamento si innesca immediatamente, e l’esodo dai versanti verso la città e la pianura non si dà come fenomeno transitorio, ma ha i tratti duri e drammatici di un vero e proprio abbandono, dove la lealtà alla terra, per le comunità o i frammenti di comunità superstiti, a quella terra della battaglia e del martirio, è stata per sempre distrutta, e i legami che sono stati recisi non possono riannodarsi: i morti non tornano.
Una montagna spezzata, dunque, e segnata fino all’ultima ora di guerra dal saccheggio e dalla devastazione, dove il percorso della ricostruzione, per quanto in diversi casi supportato dagli anglo-ameticani, è un percorso in salita, aspro e difficoltoso.
In modo eloquente, va notato che il desolato deserto dei luoghi teatro delle stragi del ’44, oggi tutelati come luoghi della memoria nell’ambito del Parco storico di Monte Sole , non sarà interessato, nel tempo, da tentativi di urbanizzazione spontanea, come se fosse un luogo in cui il tempo ha sospeso la propria corsa.
Con questa memoria pesante – ancora non elaborata, per molti versi non conosciuta e rimossa, per non pochi soggetti scomoda e fastidiosa – l’Appennino bolognese partecipa in misura massiccia all’inurbamento degli anni ’50, processo contestuale all’abbandono dell’attività agricola – già svolta nelle condizioni prossime alla sussistenza cui inevitabilmente conduceva il regime fondiario di piccola e piccolissima proprietà, soltanto verso la parte collinare sostituito dalla mezzadria – e della terra.
A partire dal periodo del cosiddetto 'miracolo economico', tra fine dei '50 e inizio '60, mentre è la città, e più in generale l'area urbana o immediatamente suburbana, il recapito primo della domanda di residenza, l'Appennino riscopre la propria vocazione turistica - una vocazione che portava con sè da tempi assai antichi, sia pure riservata ai ceti superiori, prima alle famiglie signorili dell'ancien régime, poi, con l'apertura della Transappennina e l'avvento della Belle Epoque, a fasce più ampie di utenti delle Terme o di semplici villeggianti - che restano tuttavia sempre un’élite.
A metà del '900 al contrario, come accade nei confronti delle località di mare, il turismo vacanziero diviene fenomeno di massa, e i villeggianti che scelgono l'Appennino, più prossimo e spesso meno costoso di altre destinazioni, possono schematicamente ricondursi a tre categorie, espressive di differenti legami con il territorio di destinazione.
Vanno in vacanza sull'Appennino coloro che qui hanno le radici, i genitori o altri parenti, che vengono raggiunti per il periodo di ferie.
Vanno in vacanza in Appennino, spesso anche nei week end, coloro che si 'fanno la seconda casa', costruendo un legame del tutto particolare col territorio, al tempo stesso leggero e inequivocabilmente pesante: che può anche prescindere dai rapporti sociali locali, al solito sostituiti da quelli con i propri ospiti occasionali o stanziali, ma che lascia fisicamente sul territorio un numero assai elevato di manufatti a carattere permanente, appunto, di 'seconde case', destinate a restare anche al momento in cui cadranno in disuso - ovvero quando le vacanze e i week end trascorsi nella montagna 'di prossimità' saranno passati di moda, scalzati nella preferenza da altre e più remote destinazioni, rese frattanto più abbordabili, e da parte di fasce sempre più larghe di vacanzieri, grazie all'internazionalizzazione del turismo di massa.
Infine, vanno in vacanza in Appennino i semplici vacanzieri, coloro che vanno in albergo o affittano case - spesso assidui nel corso degli anni, e destinati a costruire nel tempo un legame affettivo con il territorio -, in virtù semplicemente del mix qualitativo che l'Appennino offre, a prezzi comparativamente contenuti.
Questo turismo diffuso è un primo, non programmato, contraltare al processo di abbandono da parte dei residenti.
Nonostante infatti che la Costituzione italiana approvata nel 1948, al secondo comma dell'articolo 44, preveda che "la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane", il contrasto attivo allo spopolamento montano - le cui dinamiche sono restituite 'in diretta' dagli Atti ufficiali della Conferenza economica per l'Appennino Tosco-Emiliano, promossa a Bologna da Camera di Commercio ed Associazione nazionale delle Bonifiche dell'Emilia-Romagna nel 1956, e replicata nel 1967 -, ha inizio solo a partire dagli anni '70 del 900, da un lato, con l'approvazione della legge nazionale 1102 del 1971, istitutiva delle Comunità montane (enti di secondo grado dei Comuni montani), dall'altro, con maggiore sostanza, con l'istituzione delle Regioni.
Sarà la Regione infatti, con una legislazione specifica, che implica anche deleghe ed attribuzioni alle Comunità montane, e con politiche mirate, specie in materia di attività produttive, a promuovere politiche di incentivo al reinsediamento dirette all'Appennino, che culmineranno nel Progetto Appennino, del 1978, e saranno nel tempo affiancate da una gestione altrettanto mirata dei canali di finanziamento europei, di cui la Regione è il vettore privilegiato, in materia di agricoltura, forestazione, pmi.
Il nuovo sviluppo della montagna bolognese e imolese
, che prenderà le mosse nel corso degli anni '80 e '90 del '900, favorito dalla relativa densità dei collegamenti e, non marginalmente, dalla presenza di due ferrovie in grado di offrire supporto al pendolarismo (tema al centro dell’elaborazione del progetto di Servizio Ferroviario Metropolitano o SFM, il cui primo passo risale al 1994), trova ulteriori incentivi, nella fase matura dello sviluppo, nelle esigenze di maggiore qualità abitativa ed ambientale espresse da un diffuso ceto medio relativamente affluente, attestato lungo la fascia di maggiore urbanizzazione in fregio alla SS 9 Emilia, che inanella una serie cospicua dei centri capoluogo di provincia della Regione, cui fa da contraltare la fascia urbanizzata costiera ad est.
Si tratta spesso di nuove generazioni di ex immigrati in città proprio dalle zone montane, che con queste non hanno, nel tempo, interrotto i rapporti, e che si scoprono ansione di ritornare: la presenza dei collegamenti infrastrutturali, infatti, non ha compromesso in modo sensibile la qualità ambientale dei luoghi, rendendo la zona montana un potenziale ambito residenziale di qualità e al tempo stesso dotato di buone caratteristiche di accessibilità.
Il processo di suburbanizzazione delle pendici montane ha un particolare vigore nei decenni tra il 1971 e il 2001, per poi rallentare negli anni più recenti, in cui si caratterizza per una stagnazione in lieve calo, tendenza quest'ultima che potrebbe ragionevolmente essere ascritta alle conseguenze locali della recente crisi economica mondiale, tra le quali si constata la difficoltà delle zone montane a mantenere i livelli di offerta di lavoro, di occupazione e di reddito precedenti (cfr. il rapporto Dinamiche e sviluppo dell'Appennino metropolitano , curato dalla Città metropolitana di Bologna nel giugno 2015).